SCUADRA HITALIA
Non ho mai scritto niente che parlasse di basket. Probabilmente perché sempre troppo coinvolto da giocare o allenare. E quando si fa, non si scrive. Ricordo solo poche parole scritte in una mattina di sole, in cui parlavo delle retine dei canestri dei campetti, che intrappolano i ricordi.
Ma sto invecchiando e avrò sempre più tempo per scrivere.Nel frattempo, ascoltate.
C'erano una volta due compagni di liceo, lei bionda, lui un po' meno. Scriverò qualcosa su di loro un giorno o l'altro, recuperando i ricordi tra le maglie delle retine di qualche campetto, o di una palestra. Ogni tanto giocavano a basket insieme.Un giorno, un paio di vite dopo il liceo, e qualche vita fa, la ragazza bionda, ormai quasi donna, scrisse di basket. Oggi il ragazzo meno biondo copia ciò che lei scrisse.
Lunedì 15 giugno
Come passa lento il tempo, le ore si annodano tra le rovine fresche della città.
Domani sarà il mio 39O giorno qui a Knin; la guerriglia si è allentata e ho ben poche notizie da mandare in redazione. Per le strade il canto del muezzin si alterna ai rintocchi delle campane che segnano la fine della giornata.
Ho riguardato le foto scattate nei giorni scorsi nella loro perfetta eloquenza di dolore e distruzione. Sono stanca di guerra e sono stanca di questo cibo speziato. Sullo sfondo di alcune fotografie ho intravisto dei bambini seri come piccoli soldati che tengono in mano un cartello con la scritta "scuadra hitalia". Non so come ho fatto a non vederli prima e non so nemmeno cosa ci facessero lì. Domani ho la giornata libera e chiederò a Sreto di accompagnarmi in quella zona.
Ho voglia di vedere bambini. Non ne posso più di armi e muri scassati. Adesso è tardi mi accendo l'ultima sigaretta e poi spero di dormire.
Martedì 16 giugno
Oggi mi viene da scrivere che le ore scivolano veloci trasportate dal vento che passa nelle tante crepe delle case.
E' stata una giornata che mi ha mostrato un lato nuovo della città che non avevo saputo, o voluto, vedere. Mi sono alzata presto Sreto mi ha accompagnata nella periferia sud della città, quella in cui sono state scattate quelle foto. Erano le 10 quando sono scesa dall'auto; ho avuto subito l'impressione che fosse una zona viva; sono entrata nel primo bar che ho incontrato per chiedere dove potevo trovare un campetto da gioco o qualcosa di simile; sono uscita con un pallone una cartolina ed un panino con qualcosa di incomprensibile. Ho camminato per quasi un'ora senza meta tra le vie di una città che fino a poche ore prima avevo considerato morta e che ora mi sembrava quasi festosa. Non so quale strano dio o fato mi abbia fatta arrivare ad un campetto dove alcuni ragazzi stavano giocando a pallacanestro.
Ho giocato per dieci anni e il basket è rimasto nel mio cuore come un vecchio amante che di tanto in tanto ti logora l'anima. Se ami uno sport non riesci mai a scordarlo; ogni volta che lo rincontri, in qualsiasi luogo o forma, ti trovi rapita. Mi fa ridere essermi ritrovata a più di 500 km da casa, attorniata da gente che non conoscevo, in un paese devastato dalla guerra a tifare per la squadra rossa.
C'erano donne con il capo coperto che litigavano perché i loro figli avevano avuto un contrasto, soldati in divisa, vecchietti e molti bambini. Non so se riesco a rendere le emozioni che ho provato. Avevo scordato tutto. Non c'erano rumori di granate, nessun dolore piccolo o grande, soltanto la palla che batteva ritmicamente a terra, il vento che muoveva le retine e le linee del campo lavate dalle tante lacrime di questo popolo.
Ero seduta sulla carcassa di una vecchia auto ad ascoltare il rumore della tensione che aumentava quando è apparso un bambino che mi ha chiesto di seguirlo.
A pochi metri da dove mi trovavo c'era un altro campetto, facevano da linee quelle che un tempo erano le mura di un grande edificio e i canestri erano appesi agli scheletri delle finestre.
Il sole mi batteva forte negli occhi e quando li ho riaperti ho visto cinque bambini in posa sotto un canestro che mi chiedevano di essere fotografati.
Stavo per scattare quando uno di loro mi ha chiesto di aspettare e ho visto arrivare un ultimo bambino con lo zaino sulle spalle e un gran cartello in mano. In pochi istanti la compagnia si è risistemata: i tre più alti stavano dietro e quelli piccoli in ginocchio, in basso, con il cartello "scuadra hitalia" davanti alle loro gambe.
Avrei voluto ridere di questa situazione ma i miei piccoli campioni sembravano così seri che non ho osato. Così ho scattato 4 o 5 foto e poi ne ho fatta una ad ognuno di loro mentre tenevano la palla in mano.
Ho cercato di spiegargli che mi sarebbe piaciuto vederli giocare. Uno di loro ha dato l'ordine di iniziare. Era da molto tempo che avevo dimenticato quale fosse la vera essenza della pallacanestro e mi è sembrato di averla ritrovata lì, con quei sei bambini magri, il loro pallone e la loro serietà impeccabile nel fare gli esercizi.
Sapevo che non avrei resistito a lungo e così quasi senza accorgermene mi sono avvicinata sempre di più. Ho dato dei consigli, ho applaudito, ho gridato e alla fine mi sono trovata ad allenarli.
Non parlavamo la stessa lingua ma non aveva nessun'importanza, gli mostravo come dovevano muoversi e loro m'imitavano senza fiatare. Erano quasi 2 ore che ci allenavamo, gli ho fatto fare un ultimo tiro a testa e ho cercato di spiegargli che sarei tornata il giorno dopo.
Si sono congratulati l'uno con l'altro e se ne sono andati.
Volevo fumare una sigaretta per ricordare a me stessa cosa ci facevo a Knin ma purtroppo l'avevo già dimenticato. La mia mente elaborava l'allenamento per il giorno successivo.
Stavo per raccogliere le mie cose quando ho visto due bambini ancora sul campo. Tiravano a turno. Uno era alto con la testa grande, gli occhi blu, le gambe magre e lunghe. Portava dei pantaloni che gli stavano corti di velluto marrone, le scarpe da ginnastica e il dorso nudo. L'altro era più basso con i capelli neri, la pelle olivastra e dall'abbigliamento mi sembrava più ricco. Hanno tirato per quasi un'ora .
Adesso è veramente tardi. Finalmente ho sonno. Devo chiamare ancora mia madre.
Ho voglia di raccontarle come una palla abbia fatto rimbalzare via dalla mia testa un mese di guerra.
Mercoledì 17 giugno
Oggi mi viene da scrivere che i minuti senza palla si annodano mentre le ore scandite dai palleggi fuggono come il vento.
Questa mattina ho preparato l'allenamento, verso le 10 mi sono fatta portare da Sreto al campetto. Lui stupito mi ha chiesto se avevo dimenticato la macchina fotografica. L'aria della città aveva un profumo tutto nuovo ora che avevo visto questa goccia di vita. Pensavo che sarei stata la prima invece i bimbi erano già tutti sul campo, prontissimi e con una fascia stile rambo legata sulla fronte. Avrei voluto abbracciarli gridargli di non cambiare mai, invece sono rimasta molto seria e ho iniziato a farli palleggiare.
Non conosco ancora i loro nomi. Sono sei: cinque maschi e una femmina, hanno tutti dei fondamentali discreti. La bimba è del Montenegro e ha la grinta di una maga zingara. Tra gli altri il bimbo con gli occhi blu sembra nato solo per giocare a pallacanestro. E' impressionante vedere come si muove, è come se danzasse con la palla, come se volasse sopra questo vecchio campetto.
E' nato con un dono. E in questo luogo in cui è così difficile trovare poesia i suoi movimenti armoniosi raccontano di una terra meravigliosa, di un bambino che fa scordare la paura e rinascere la speranza.
Capelli neri ha sempre paura di sbagliare, è molto dolce, quasi femminile e vive come ombra di occhi blu. Non vuole mai tirare a canestro e passa sempre la palla.
Gli altri tre si somigliano molto hanno i capelli e gli occhi marroni, sono seri e grintosi.
Stavamo per finire l'allenamento quando sono arrivati altri ragazzi, forse più grandi, alla vista dei quali i miei campioni hanno liberato il campo.
La piccola zingara mi ha detto, in qualcosa di simile all'italiano, che quella era la squadra padrona del campo, perché nessuno era mai riuscito a vincere contro di loro.
Siamo rimasti a guardarli, zitti, per più di un'ora. Vedevo crescere negli occhi di tutti la certezza che avremmo potuto batterli.
Ho mandato occhi blu a fissare la partita. Giocheremo fra tre giorni!
Giovedì 18 giugno
Non ho più tempo di pensare alle ore che si annodano o che fuggono con il vento.
Oggi abbiamo vinto non c'è altro da dire.
Era un'amichevole che sono riuscita ad organizzare grazie a Sreto che conosce un allenatore nel quartiere ricco della città. Siamo partiti verso mezzogiorno. I bambini sono arrivati con le mamme che non la finivano mai di ringraziarmi. La piccola zingara mi ha detto che doveva portare anche il fratellino. Così siamo partiti stipati in 9 su una vecchia ape car.
Durante il viaggio i bambini sono stati zitti, era la loro prima partita ufficiale.
Il campo si trova in una zona particolarmente ricca della città, non lontano da una chiesa romanica di mattoni rossi. Appena arrivati i bambini si sono tolti i pantaloni e sono rimasti con dei pantaloncini corti dai quali uscivano le loro gambe magre e muscolose.
Gli avversari sono arrivati circa 10 minuti dopo, con la divisa della scuola che frequentavano. Erano dodici e hanno iniziato a correre in fila indiana lungo le linee del campo.
I miei bambini sono rimasti fermi a guardarli, fino a che non gli ho detto di iniziare a tirare a canestro. Si erano già radunate un po' di persone: le mamme, i fratelli e qualche soldato che passava per la strada. In campo ho schierato un quintetto devastante, capelli neri è rimasto in panchina. Ho dato le marcature e ho cercato di farmi passare la tensione che mi attanagliava le corde vocali.
La partita è iniziata, gli avversari hanno segnato 4 punti di fila lasciando la mia squadra senza parole. Ho guardato occhi blu, lui ha alzato il pollice stringendo il pugno e mi ha fissata dritto negli occhi, poi ha recuperato la palla ha iniziato a palleggiare come un campione è arrivato sulla linea da tre ha sistemato i piedi e ha segnato uno dei più bei canestri che io abbia mai visto.
4 a 3. E' stata l'ultima volta che sono stati in vantaggio .
La zingara sembrava una furia impazzita. Tirava e palleggiava peggio degli altri ma non c'era pallone che non passasse tra le sue mani. La sua espressione somigliava a quella di un mare burrascoso. Non temeva nessun avversario al punto che è uscita per aver commesso cinque falli. Ha sbraitato qualche insulto nella sua lingua e si è seduta in panchina con il fratellino.
Al suo posto è entrato capelli neri. Continuava a contorcersi le dita per l'agitazione, aveva una faccia così preoccupata da sembrare più piccolo della sua età, il primo pallone che ha ricevuto gli è scivolato sulla linea laterale. Per fortuna gli altri membri della squadra gli hanno detto di non preoccuparsi a parte la zingara che, con un tatto montenegrino, lo deve aver mandato a quel paese.
La partita continuava mostrando ad un pubblico, sempre più caldo, la nostra netta superiorità. Occhi blu portava la palla in attacco e la smistava agli altri membri. Ogni canestro che realizzavamo era seguito da una serie infinita di celebrazioni, di baci al pubblico e abbracci. Tentavo di smorzare queste manifestazioni anche se, nel profondo del mio cuore, le adoravo.
Eravamo troppo gasati e come sempre in queste occasioni entravano anche i canestri più impensabili: tiri rovesciati, carpiati ed ogni sorta di invenzione spiata in televisione. Capelli neri non aveva ancora segnato. La zingara tentava di spiegarmi che lui non tira mai in partita perché, mi pare di aver capito, è senza palle. Stava finendo di dirmelo quando occhi blu ha fatto finta di tirare e ha scaricato la palla sotto canestro a capelli neri. Pensavo proprio che la ripassasse fuori invece si è voltato, ha assaporato la gloria del momento, ha preso la mira e ha lanciato la palla a canestro. La palla non è entrata, ma credo che a nessuno importasse molto perché tutti l'hanno abbracciato come fosse un eroe. Lui fingendo di non essere emozionato ha continuato a correre serio ma si vedeva che era felice.
La partita è finita 23 a 12 per noi. C'era Sreto talmente felice che ha portato tutti i bambini a mangiare il gelato.
Al nostro arrivo ci aspettavano le mamme. I bambini hanno voluto che cominciassimo a suonare il clacson 300 metri prima dell'arrivo.
Hanno raccontato la partita come se avessero vinto la sfida più difficile mai combattuta. Le mamme li accarezzavano sul capo, molto orgogliose, e li riportavano, stanchi, alle loro case.
Sono talmente agitata che non riesco a dormire. Domani ho una sorpresa per loro: ho fatto fare delle canottiere con il numero, sono bianche e blu.
18 giugno notte
Mi hanno appena telefonato dall'Italia. Domani devo tornare, non ha più senso che resti qui. La guerra è finita.
Dovrei essere felice?
E' tanto che aspetto di tornare.
Per farmi una sorpresa mi hanno anche prenotato il volo.
Ma cosa pensavo, di restare qui sempre?
Domani andrò al campo presto, con le maglie; sono bravi, vinceranno anche senza di me.
Sabato 20 giugno
Sono in Italia da due giorni, mi mancano i cibi speziati e mi manca la mia squadra. Al giornale mi hanno chiesto di scrivere un articolo che riassuma un po' la mia permanenza a Knin. Ci penserò quando saranno pronte le ultime foto che ho scattato.
Domani mia sorella mi ha chiesto di andare a prendere mio nipote al palazzetto. Anche lui gioca a minibasket.
Se devo essere sincera non ne ho molta voglia, non voglio vedere dei bambini viziati, non voglio vedere un palazzetto nuovo, non voglio vedere niente che mi ricordi i miei campioni.
Domenica 21 giugno
Sono arrivata che la partita era già iniziata. Mi sono seduta di fianco ad una mamma che, ridendo, mi ha detto che Alex, il suo bambino, non faceva mai canestro ma voleva ugualmente venire a tutte le partite.
Non vedevo l'ora che finisse la partita, ero stata al telefono per più di mezz'ora senza guardare neanche in campo.
Ad un certo punto la mamma di Alex mi ha tirato la maglietta dicendo che sarebbe entrato suo figlio. M'indicava un ragazzino con i capelli scuri in attesa a bordo campo.
Mi sono sentita così stupida ad aver telefonato mentre quei bambini giocavano.
Non erano viziati, ricchi, italiani; erano soltanto bambini che giocavano a pallacanestro.
La squadra di Alex stava perdendo 8 a 26 e mancava un solo minuto alla fine.
Quei bambini mi sono sembrati i miei.
C'era una bimba che aveva gli occhi come il mare in burrasca ed un bimbo con gli occhi blu che sembrava un ballerino con la palla in mano. I contorni dei volti di quei bambini in campo sfumavano sempre di più.
Mi sembrava di essere ritornata a Knin con la mia squadra. Volevo che capelli neri facesse un canestro.
Quando occhi blu gli ha passato la palla lui l'ha stretta forte ed è partito palleggiando sicuro, come non aveva mai fatto.
Andava verso il canestro sbagliato.
Gli gridavano di fermarsi ma lui sembrava in un altro mondo.
I secondi passavano...
Lui come un campione continuava indisturbato la sua corsa.
Si è fermato soltanto sulla linea da tre, ha chiuso gli occhi e la palla è volata dentro il canestro.
Il pubblico muto ha udito soltanto il rumore della retina e il rimbalzo della palla a terra .
Capelli neri ha alzato l'indice al cielo in modo solenne.
Il palazzetto è esploso.
8 a 29: un trionfo.
A nessuno importava che Alex avesse fatto auto-canestro, aveva vinto se stesso.
E in qualsiasi modo sapersi vincere, senza temere di sbagliare, è un trionfo.
Lunedì 22 giugno
Ho finito adesso l'articolo da portare in redazione. Sono le sei del mattino.
Non sono riuscita a parlare di guerra.
Ho parlato di sport.
Ecco l'articolo :
"Sono stata inviata di guerra un mese e fino all'ultimo giorno credevo che la guerra uccidesse tutto.
Mi sono accorta che la voglia di giocare non l' ha uccisa.
Non l'ha uccisa qui come non può ucciderla in nessun luogo.
Mi sono accorta di quanto una palla e un canestro siano molto più di ciò che sembrano.
Mi sono accorta che tra le rovine delle case si può costruire un campo.
Mi sono accorta che i soldati tifano insieme ai banditi.
E, infine, mi sono accorta che non importa se fai canestro dalla parte giusta o da quella sbagliata. L'importante è provare a tirare."